L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento
opera da camera per un performer, due voci, ensemble ed elettronica
musica Vittorio Montalti
libretto Giuliano Compagno
tratto da «L’art et la manière d’aborder son chef de service pour lui demander une augmentation» di Georges Perec (© Fayard, 2010 – Prima pubblicazione: Editions Hachette Litteratures)
interpreti principali Jo Bulitt, Ljuba Bergamelli, Nicholas Isherwood
Icarus Ensemble
direttore Yoichi Sugiyama
regìa, scene e luci Claudia Sorace / Muta Imago
drammaturgia e assistente alla regia Riccardo Fazi
realizzazione video e assistente alle scene Maria Elena Fusacchia
costumi Jonne Sikkema
regìa del suono Simone Conforti
drammaturgia e assistente alla regia Riccardo Fazi
realizzazione video e assistente alle scene Maria Elena Fusacchia
costumi Jonne Sikkema
regìa del suono Simone Conforti
Commissione della versione definitiva: Fondazione I Teatri di Reggio Emilia / Festival Aperto
2016 Nuovo allestimento in prima assoluta
produzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Da una situazione comunissima – un impiegato che chiede un aumento al proprio capo – scaturiscono mille interrogativi: Quando chiedere l’aumento? In che modo? Il capo sarà in ufficio? Mi riceverà? Sarà di buon umore? Ma anziché scegliere una possibilità, Perec, autore del testo da cui quest’opera è tratta, decide di rappresentarle tutte, esaltando lo stato di permanente incertezza dell’impiegato risucchiato in una giostra che gira a vuoto, inconcludente e grottesca.
“L’arte e la maniera…” è un testo costituito da una sola frase lunga sessanta pagine, un flusso continuo di parole senza punteggiatura che descrive la situazione illustrata dal titolo, presentando tutte le possibilità, le varianti, gli inganni che un povero impiegato deve attraversare per poter arrivare a chiedere un aumento di stipendio al proprio capo.
Membro dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle) – con Raymond Queneau e Italo Calvino – Perec parte da un assunto tipico del gruppo: “colui che obbedisce a regole rigide e arbitrarie, ma a lui perfettamente note, è molto più libero di colui che si crede libero perché ignora le regole cui obbedisce”.
“L’arte e la maniera…” è un testo costituito da una sola frase lunga sessanta pagine, un flusso continuo di parole senza punteggiatura che descrive la situazione illustrata dal titolo, presentando tutte le possibilità, le varianti, gli inganni che un povero impiegato deve attraversare per poter arrivare a chiedere un aumento di stipendio al proprio capo.
Membro dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle) – con Raymond Queneau e Italo Calvino – Perec parte da un assunto tipico del gruppo: “colui che obbedisce a regole rigide e arbitrarie, ma a lui perfettamente note, è molto più libero di colui che si crede libero perché ignora le regole cui obbedisce”.
Quando ho iniziato a lavorare a quest’opera non avevo immediatamente compreso la forza politica e umana che conteneva, nascosta com’era sotto a una lucida e compatta superficie linguistica e a un impianto formale apparentemente inscalfibile.
Prima di lavorare sulla musica di Vittorio Montalti avevo studiato il racconto di Perec da cui l’opera trae ispirazione: “L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento”.
Un testo di Perec è un vero e proprio diagramma di flusso dove la narrazione procede per bivi, alternative, semplificazioni e dove ogni frase del testo, introdotta dalla formula “delle due l’una…” produce due consecutive, così che le possibilità di azione e di racconto, moltiplicandosi all’infinito, pagina dopo pagina, in realtà alla fine si riducono a zero.
Pensavo quindi di essere soprattutto davanti a un gioco linguistico, a una situazione narrativa grottesca, surreale, a tratti comica.
Così la partitura di Montalti, costruita per frammenti, ritorni, andamenti musicali che sembrano portare avanti e invece tornano indietro, o restano fermi, incastrati nella ripetizione, mi sembrava rappresentare perfettamente lo spirito del testo, la sensazione di “falso movimento” che questo mi aveva restituito.
Quando ho iniziato a lavorare sul progetto credevo quindi di trovarmi di fronte a un doppio esercizio linguistico e mi preparavo a trovare la maniera migliore per restituirlo in scena, per dargli corpo e visione. Dovevo realizzare un impianto che restituisse visivamente e in relazione allo spazio la rigida strutturazione e la possibilità moltiplicatoria che conteneva la musica e il racconto. Il povero impiegato doveva abitare uno spazio ostile e incomprensibile, che cambia in continuazione e che lo confonde. La geografia degli spazi (attraverso la quale, sempre, il potere si esprime) doveva essere oppressiva ma allo stesso tempo fuorviante: lunghi corridoi, edifici altissimi con piani nascosti, uffici tutti uguali nei quali è difficile orientarsi, ripetizioni all’infinito di geometrie sempre uguali. Mentre lavoravo sulla progettazione dello spazio scenico iniziavo a intuire che dietro la rigida struttura formale del materiale si nascondeva altro, o meglio, che proprio quella struttura era lì per farsi veicolo di racconto umano e di avvicinamento.
Bisognava entrare in prova però per capire fino in fondo la qualità politica del conflitto tra quest’uomo e la trappola all’interno della quale si trova costretto, tra la macchina scenica (musicale e narrativa) e il suo corpo inadatto a muoversi al suo interno.
Prova dopo prova mi è apparso sempre più chiaro che il percorso continuamente interrotto e ostacolato di quest’uomo che cerca di raggiungere il proprio capo per chiedergli un aumento non è solo classificabile in un ambito formale. Ma che questa piccola storia arrivava a parlarmi di uno stato delle cose assolutamente attuale: mi parlava di confronto tra il singolo e la società, di possibilità di azione dell’individuo all’interno di un sistema pre-costituito, del conflitto tra realtà e desiderio. Mi veniva in mente Bartleby, il famigerato scrivano di Melville. Anche lì il racconto muove da una scrivania, dal confronto tra due individui, un capo e un impiegato, dagli spazi angusti di un ufficio. Al contrario di Bartleby però, che con il suo famigerato “preferirei di no” riesce a mettere in crisi il suo capo e tutto il suo universo di riferimento, il nostro impiegato balbetta, non riesce a formulare una frase di senso compiuto: a lui non è dato possedere il potere della formula linguistica che cambia il mondo e non a caso, nell’opera di Montalti, l’impiegato è l’unica figura che non canta, piuttosto si muove per sussurri, grida, tentennamenti. L’impiegato vorrebbe reagire, ma non riesce mai a portare a segno il suo obiettivo: non possiede le chiavi per comprendere le regole dell’universo che è costretto ad abitare giorno dopo giorno, fino alla tanto desiderata pensione. Percorre corridoi che non portano da nessuna parte; parla, ma nessuno lo ascolta veramente; il suo corpo è inadeguato allo spazio che lo circonda: più che a Bartleby, è vicino al famigerato insetto kafkiano o al nostro umile Fantozzi. Dal momento in cui decide di alzarsi dalla scrivania (ma si è mai veramente alzato?) può, deve in continuazione scegliere, ma le sue scelte non portano da nessuna parte. E l’universo dentro al quale si muove diventa, inesorabilmente, sempre più surreale e incomprensibile.
Ma l’impiegato non è l’unico responsabile di questo fallimento. Anzi. Quella che sembra un’empasse dovuta soltanto ai dubbi, alle paure e alle inadeguatezze del protagonista, in realtà è l’esito calcolato e inesorabile di un complesso sistema di depistaggi, deviazioni e rallentamenti che il potere architetta per fare in modo che lui (ma potrebbe essere chiunque altro) non possa mai raggiungere lo scopo prefissatosi. Un sistema che, soprattutto, e questa è la cosa più importante, lo rende ai propri occhi l’unico responsabile di questo fallimento. E che in continuazione gli ricorda: “Non comprendo. Si spieghi meglio.”
In questa falsa pretesa di incomprensione reciproca, il potere e la politica giocano la loro partita.
Prima di lavorare sulla musica di Vittorio Montalti avevo studiato il racconto di Perec da cui l’opera trae ispirazione: “L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento”.
Un testo di Perec è un vero e proprio diagramma di flusso dove la narrazione procede per bivi, alternative, semplificazioni e dove ogni frase del testo, introdotta dalla formula “delle due l’una…” produce due consecutive, così che le possibilità di azione e di racconto, moltiplicandosi all’infinito, pagina dopo pagina, in realtà alla fine si riducono a zero.
Pensavo quindi di essere soprattutto davanti a un gioco linguistico, a una situazione narrativa grottesca, surreale, a tratti comica.
Così la partitura di Montalti, costruita per frammenti, ritorni, andamenti musicali che sembrano portare avanti e invece tornano indietro, o restano fermi, incastrati nella ripetizione, mi sembrava rappresentare perfettamente lo spirito del testo, la sensazione di “falso movimento” che questo mi aveva restituito.
Quando ho iniziato a lavorare sul progetto credevo quindi di trovarmi di fronte a un doppio esercizio linguistico e mi preparavo a trovare la maniera migliore per restituirlo in scena, per dargli corpo e visione. Dovevo realizzare un impianto che restituisse visivamente e in relazione allo spazio la rigida strutturazione e la possibilità moltiplicatoria che conteneva la musica e il racconto. Il povero impiegato doveva abitare uno spazio ostile e incomprensibile, che cambia in continuazione e che lo confonde. La geografia degli spazi (attraverso la quale, sempre, il potere si esprime) doveva essere oppressiva ma allo stesso tempo fuorviante: lunghi corridoi, edifici altissimi con piani nascosti, uffici tutti uguali nei quali è difficile orientarsi, ripetizioni all’infinito di geometrie sempre uguali. Mentre lavoravo sulla progettazione dello spazio scenico iniziavo a intuire che dietro la rigida struttura formale del materiale si nascondeva altro, o meglio, che proprio quella struttura era lì per farsi veicolo di racconto umano e di avvicinamento.
Bisognava entrare in prova però per capire fino in fondo la qualità politica del conflitto tra quest’uomo e la trappola all’interno della quale si trova costretto, tra la macchina scenica (musicale e narrativa) e il suo corpo inadatto a muoversi al suo interno.
Prova dopo prova mi è apparso sempre più chiaro che il percorso continuamente interrotto e ostacolato di quest’uomo che cerca di raggiungere il proprio capo per chiedergli un aumento non è solo classificabile in un ambito formale. Ma che questa piccola storia arrivava a parlarmi di uno stato delle cose assolutamente attuale: mi parlava di confronto tra il singolo e la società, di possibilità di azione dell’individuo all’interno di un sistema pre-costituito, del conflitto tra realtà e desiderio. Mi veniva in mente Bartleby, il famigerato scrivano di Melville. Anche lì il racconto muove da una scrivania, dal confronto tra due individui, un capo e un impiegato, dagli spazi angusti di un ufficio. Al contrario di Bartleby però, che con il suo famigerato “preferirei di no” riesce a mettere in crisi il suo capo e tutto il suo universo di riferimento, il nostro impiegato balbetta, non riesce a formulare una frase di senso compiuto: a lui non è dato possedere il potere della formula linguistica che cambia il mondo e non a caso, nell’opera di Montalti, l’impiegato è l’unica figura che non canta, piuttosto si muove per sussurri, grida, tentennamenti. L’impiegato vorrebbe reagire, ma non riesce mai a portare a segno il suo obiettivo: non possiede le chiavi per comprendere le regole dell’universo che è costretto ad abitare giorno dopo giorno, fino alla tanto desiderata pensione. Percorre corridoi che non portano da nessuna parte; parla, ma nessuno lo ascolta veramente; il suo corpo è inadeguato allo spazio che lo circonda: più che a Bartleby, è vicino al famigerato insetto kafkiano o al nostro umile Fantozzi. Dal momento in cui decide di alzarsi dalla scrivania (ma si è mai veramente alzato?) può, deve in continuazione scegliere, ma le sue scelte non portano da nessuna parte. E l’universo dentro al quale si muove diventa, inesorabilmente, sempre più surreale e incomprensibile.
Ma l’impiegato non è l’unico responsabile di questo fallimento. Anzi. Quella che sembra un’empasse dovuta soltanto ai dubbi, alle paure e alle inadeguatezze del protagonista, in realtà è l’esito calcolato e inesorabile di un complesso sistema di depistaggi, deviazioni e rallentamenti che il potere architetta per fare in modo che lui (ma potrebbe essere chiunque altro) non possa mai raggiungere lo scopo prefissatosi. Un sistema che, soprattutto, e questa è la cosa più importante, lo rende ai propri occhi l’unico responsabile di questo fallimento. E che in continuazione gli ricorda: “Non comprendo. Si spieghi meglio.”
In questa falsa pretesa di incomprensione reciproca, il potere e la politica giocano la loro partita.