Comeacqua
ideazione: Glen Blackhall, Riccardo Fazi, Simona Frattini, Fabio Ghidoni, Claudia Sorace, Massimo Troncanetti

vestiti di scena: Fiamma Benvignati
con Glen Blackhall, Simon Blackhall
produzione Muta Imago 2006-07
Prendiamo l’acqua, e poi una corda, dei sacchetti di plastica e un tavolo di ferro.
Del tavolo facciamo casa, nave e tempesta. L’acqua la chiudiamo nei sacchetti e da lí tiriamo fuori oggetti che creano mondi e visioni. La ghiacciamo e la trituriamo, l’acqua, per capire come funzionano le cose; la facciamo cadere dall’alto perché quando ci si separa non può che fare brutto tempo; la tagliamo via dal corpo, la illuminiamo e la sbattiamo nei vetri, perché bisogna crescere; la coloriamo e la soffiamo nei tubi, perché ci si possa capire; ci balliamo sopra, nudi come bambini, perché la vita non è un cerchio, ma una spirale.
Se dovessi scrivere delle note di drammaturgia su comeacqua, oggi che lo spettacolo è compiuto, definitivo nella forma e nei contenuti, probabilmente la prima cosa che farei sarebbe riattraversarlo per intero, lo spettacolo, a mente, ad occhi chiusi, per cercare di capire cosa riesce ancora a dirmi.
Mi soffermerei sulle singole scene, rifletteri sul lavoro nel suo insieme, ne immaginerei i colori e i movimenti per cercare di strappargli un cuore centrale, che possa avere senso, per me, adesso.
Ne scoprirei tanti di cuori, perché comeacqua non ne ha mica solo uno, finirei per dover scegliere di quale parlare a scapito degli altri, finirei per cercare parole giuste che sembrino nuove, finirei per rovistare tra le righe di testi che ho incontrato ultimamente e che in un modo o nell’ altro mi hanno ricordato lo spettacolo, per parti e per intero.
Finirei per fare qualcosa di insincero.
Piuttosto, allora, torno indietro, a quei giorni di aprile di qualche tempo fa. Ripercorro il lavoro iniziale, le fonti fondative utilizzate allora per la prima volta.
Per caso trovo un brano di Conrad che avevo dimenticato, appare sottolineato con convinzione, tracciato più volte.
Di solito, quando ritroviamo nostri segni autografi sulle pagine di libri letti in passato, capita di provare una specie di strano imbarazzo, di percepire una distanza tra il nostro io di allora e le motivazioni che lo spinsero a tracciare quei segni a matita e il nostro io di adesso che li ritrova e sorride, quasi paterno.
Questo brano qui però lo prendo, lo trascrivo e lo rileggo.
E capisco perché lo avevo scelto tra gli altri. E perché lo sceglierei ancora oggi.
Non c’è bisogno che vi dica cosa significhi girovagare in un’imbarcazione aperta. Ricordo notti e giorni di calma in cui si vogava, si vogava e l’imbarcazione sembrava non muoversi affatto, come ammaliata entro il cerchio dell’orizzonte del mare. Ricordo il caldo, le piogge, i diluvi che ci costringevano ad aggottare per salvare la vita (ma che riempivano il nostro barile) e ricordo sedici ore filate con la bocca riarsa come cenere e con un remo di governo sulla poppa per tenere il mio primo comando dritto di prua contro i frangenti.
Non avevo saputo fino ad allora quanto valessi.
Ricordo le facce tirate, l’aria abbattuta dei miei due uomini e ricordo la mia gioventù e la sensazione che non potrà mai più tornare – la sensazione di poter durare in eterno, di poter sopravvivere al mare, alla terra e a tutti gli uomini; la sensazione ingannevole che ci alletta alle gioie, ai pericoli, all’amore fraterno, agli sforzi vani – alla morte; la trionfante convinzione di forza, il calore della vita nel pugno di polvere, l’ardore del cuore che ogni anno si fa incerto, si fa freddo, si fa piccolo, si estingue – e si estingue presto, troppo presto – prima della vita stessa.”
Vale ancora. Il senso è lo stesso.
Riccardo Fazi